10 ottobre 2007

L'utopia femminista ha generato l'Eurabia




L'UTOPIA FEMMINISTA HA GENERATO L'EURABIA
Enclave, n. 36, giugno 2007
di Guglielmo Piombini

In uno spassoso articolo “Contro il femminismo” (pubblicato su Enclave n. 31/2006) Murray N. Rothbard notava come fosse diventato impossibile evitare di essere assaliti, senza tregua, dal noioso chiacchiericcio delle femministe.
Ogni giorno siamo inondati da libri e articoli sul problema della “liberazione della donna”, mentre non si trova nulla che presenti la tesi opposta. Ma se gli uomini tengono le fila di questa società maschile e sessista, osservava Rothbard, come mai non osano avanzare programmi o stampare scritti a propria difesa? Gli “oppressori” rimangono stranamente silenziosi, e questo induce a sospettare che forse l’oppressione risiede nella sponda opposta.

Nel mondo occidentale, dopo decenni di intimidazioni e lavaggio del cervello, gli uomini hanno perso il coraggio di replicare agli attacchi delle femministe. Ci voleva una donna come Alessandra Nucci, che in gioventù ha conosciuto dall’interno il movimento femminista, per denunciarne la pericolosa deriva estremista, illiberale e anticristiana. In un libro notevole uscito alla fine del 2006, La donna a una dimensione (Marietti Editore), Alessandra Nucci osserva che in Occidente le donne hanno conseguito una grande libertà di scelta nel campo dell’istruzione, del lavoro o della famiglia, ma le femministe, invece di celebrare questi progressi, continuano a presentare le donne come vittime della discriminazione e a pretendere dallo Stato trattamenti privilegiati.

La Nucci documenta in maniera dettagliata il modo in cui le femministe sono riuscite con successo ad avvalersi delle burocrazie e delle agenzie internazionali legate alle Nazioni Unite per imporre in ogni sede l’ideologia “di genere”. Questa dottrina si basa sulla convinzione che tutte le differenze fra gli uomini e le donne, a parte quelle fisiche, siano frutto di indebiti condizionamenti e di stereotipi sociali, e che quindi siano modificabili. Con il pretesto di assicurare alle donne la definitiva parità, osserva la Nucci, le femministe di genere mirano a renderle uguali agli uomini orientando (cioè manipolando) i gusti, con le pressioni culturali e l’educazione, nell’illusione di riuscire a creare una nuova natura umana, libera di scegliere fra orientamenti sessuali diversi e soprattutto libera di non riprodursi. Ciò comporta l’incoraggiamento di nuovi stereotipi, inculcati con l’educazione a scuola e con le immagini nei media, in cui la donna è conformata a un modello per il quale la carriera e il lavoro fuori casa non sono più una scelta, ma l’esigenza unica per realizzarsi nella vita, l’uomo non è più tanto da uguagliare quanto da soppiantare, e la maternità diventa un’opzione residuale di second’ordine.

La meta a cui puntano questi movimenti femministi è un via libero planetario alla diffusione delle pratiche di pianificazione famigliare (la Nucci parla di vero e proprio “imperialismo contraccettivo”), alla banalizzazione della promiscuità sessuale, all’universalizzazione dell’aborto libero e gratuito, a una ridefinizione della natura umana che annulli la famiglia annegandola nel mare dei generi intercambiabili: tutte cose che vanno in direzione della dissoluzione della famiglia monogamica auspicata da Friedrich Engels e da schiere di socialisti prima o dopo di lui.

Ma le donne sono più felici?

Sorge però un dubbio: se i diversi ruoli tradizionali svolti dagli uomini e dalle donne non sono il frutto dell’oppressione patriarcale, ma di libere scelte che esprimono la natura maschile e femminile, le femministe non rischiano di creare infelicità nelle donne, costringendole a compiti non propri? Alessandra Nucci ricorda che già nel 1982 la femminista storica Betty Friedan aveva ammesso che ci potrebbe effettivamente essere qualcosa nella natura delle donne che le porta a trovare la felicità nella famiglia e nella casa. Se l’agiografia femminista ha imposto con successo come modello unico a cui aspirare quello della donna che lavora, studi sociologici hanno dimostrato che separare un bambino dalla madre troppo presto o per troppo tempo rischia di provocare danni a lungo termine su quel bambino.

Se le donne spesso preferiscono il part-time per stare con i propri figli non è perché sono indotte a sacrificarsi dai condizionamenti della società tradizionali, ma perché difficilmente la propria felicità può sussistere se i propri figli sono infelici. Per le femministe radicali, invece, queste donne sono da considerare dei soggetti da rieducare perché incapaci di capire da sole che è nel loro interesse optare per il lavoro a tempo pieno e privilegiare la propria autorealizzazione rispetto alla cura in prima persona dei propri figli. Una parlamentare laburista olandese, Sharon Dijksma, ha proposto addirittura di multare le donne che scelgono di fare le casalinghe invece di lavorare fuori casa, perché stando in casa sprecherebbero la costosa istruzione ricevuta “a spese della società”. È la solita storia: i politici prima caricano la gente di tasse per fornire dei servizi “gratuiti” non richiesti, e poi si sentono in diritto di gestire totalmente le loro vite.

Mettere in contrapposizione la felicità delle donne con quelle dei loro figli, osserva la Nucci, è irreale e innaturale. Se è vero che non esiste destino biologico che prescrive che la donna debba necessariamente realizzarsi come madre, è altrettanto vero che la donna che si può ritenere felice nonostante l’infelicità di un figlio è una vera rarità. Gli studi dimostrano inoltre che, nonostante tutti gli sforzi e le pressioni perché le donne pensino alla carriera e raggiungano l’esatta proporzione dei maschi nel lavoro, nella politica o negli sport, sia le femmine sia i maschi rientrano subito negli “stereotipi” tradizionali nel momento in cui li si lascia liberi di scegliere. Nelle università, ad esempio, sono uomini la stragrande maggioranza degli studenti che scelgono i rami tecnologici, mentre le donne costituiscono la stragrande maggioranza delle iscritte a scienze dell’educazione e alle materie umanistiche.

Il sistematico disprezzo del maschio (occidentale)

Il femminismo radicale ha diffuso con successo una cultura che disprezza il maschio e tutti i caratteri solitamente associati alla mascolinità. Molte università occidentali prevedono dei corsi sul femminismo che diffondono un odio per gli uomini impensabile in qualsiasi altra parte del mondo. Nelle scuole dei paesi anglosassoni e del Nord Europa, ricorda la Nucci, i giovani maschi vengono sistematicamente attaccati per la loro identità e denigrati dalle insegnanti, che arrivano a provocare le femmine per farle adirare contro il sesso maschile. Fin da piccoli i maschi si sentono marchiati come il sesso violento e insensibile, e vivono in uno stato permanente di colpevolezza. La mentalità ingenerata dal femminismo organizzato suggerisce anche che i padri sono un elemento di poco conto all’interno della famiglia. Questo spiega perché i tribunali assegnino di regola i figli alla madre in caso di separazione, perché il parere del padre sulla decisione di abortire o meno non conti nulla, e perché i programmi televisivi e le pubblicità ritraggano raramente figure positive di uomini.

Questa pressione giuridica e culturale fa sì che siano sempre più numerose la famiglie in cui il padre è assente, perché respinto dalla moglie o perché scacciato e perseguitato dai tribunali imbevuti di ideologia femminista. Negli Stati Uniti, ad esempio, pare siano ormai il 40 % i figli minorenni che non vivono con il padre. Tuttavia, come ha dimostrato anche lo psicologo Claudio Risè nel libro Il padre. L’assente inaccettabile (Edizioni San Paolo), gli studi indicano che la mancanza della figura paterna danneggia irreparabilmente lo sviluppo armonioso dei figli. Il padre infatti ha il compito di sciogliere il nodo protettivo che lega la madre al bambino, spingendo il figlio a diventare intraprendente e ad aspirare all’autonomia.

Nell’ideologia femminista però vi è un aspetto ancora più inquietante, che non sfugge ad Alessandra Nucci: solo i maschi occidentali vengono messi sotto accusa e stigmatizzati fin dalla più tenera età. Le femministe non spendono una parola di critica nei confronti degli uomini che appartengono a culture molto più oppressive e “patriarcali” di quella occidentale. Nel 2002 la femminista svedese di idee marxiste Gudrun Schyman, il cui usuale grido di battaglia è “morte alla famiglia nucleare!”, ha affermato che gli uomini svedesi non sono differenti dai talebani, e ha proposto una tassazione collettiva per legge a carico di tutti gli uomini svedesi, in riparazione delle loro presunte violenze sulle donne.

Nel 2004, sul maggior quotidiano svedese Aftonbladet, la femminista Joanna Rytel ha scritto un articolo intitolato “Non darò mai vita a un bambino bianco”, nel quale affermava che i maschi bianchi sono tutti egoisti, sfruttatori, presuntuosi e sessuomani, concludendo con l’avvertimento “uomini bianchi, statemi lontani!”. Le femministe norvegesi stanno cercando di far approvare una legge che impone la chiusura di tutte le imprese che non assumano almeno il 40 per cento di donne nei loro consigli di amministrazione; inoltre hanno chiesto anche quote per gli immigrati musulmani.

L’attacco al maschio occidentale potrebbe produrre però un inatteso effetto boomerang: la progressiva islamizzazione culturale e demografica del continente europeo. Distruggendo la famiglia e la figura paterna e maschile, le femministe stanno spianando la strada alla penetrazione indisturbata dell’islam nelle società occidentali, preparando così un futuro da incubo per le prossime generazioni di donne. Partendo dalla brillante analisi di Alessandra Nucci, vorrei spiegare perché la vittoria del femminismo potrebbe paradossalmente favorire l’avvento dell’Eurabia.

Come il femminismo ha spianato la strada all’islam

Per quanto alcune delle più coraggiose e indomite avversarie dell’islam siano donne (si pensi a Oriana Fallaci, a Bat Ye’Or, a Ayaan Hirsi Ali), è indubbio che, nella media, le donne occidentali siano più favorevoli al multiculturalismo e all’immigrazione islamica rispetto agli uomini occidentali. In tutto l’Occidente i partiti più critici verso l’immigrazione sono tipicamente maschili, mentre quelli che esaltano la società multiculturale sono spesso dominati dalle femministe. Se negli Stati Uniti avessero votato solo le donne, il presidente in carica l’11 settembre 2001 sarebbe stato Al Gore, non George W. Bush. In Norvegia l’unico partito che cerca di contrastare l’immigrazione islamica di massa che sta cambiando il volto del paese è il Partito del Progresso, il cui elettorato è per il 70 per cento maschile; all’estremo politico opposto il multiculturalista Partito Socialista riceve il 70 per cento dei suoi voti dalle donne.

La spiegazione femminista di questo diverso comportamento elettorale è che gli uomini sono “più xenofobi ed egoisti”, mentre le donne hanno la mente più aperta e sono più solidali con gli estranei. La verità, probabilmente, è che tradizionalmente gli uomini hanno sempre avuto la responsabilità di individuare i pericoli e di proteggere la propria comunità dai potenziali nemici esterni.

Il rifiuto delle femministe di confrontarsi con il problema dell’immigrazione musulmana non ha però solo motivazioni psicologiche, ma anche ideologiche. Molte femministe sono silenziose sull’oppressione islamica delle donne perché hanno abbracciato un’ideologia terzomondista e antioccidentale che le paralizza. A giudicare dalle retorica femminista, infatti, tutta l’oppressione del mondo proviene dall’uomo occidentale, che opprime sia le donne sia gli uomini non occidentali. Gli immigrati musulmani sarebbero anch’essi delle vittime: al massimo con qualche pregiudizio patriarcale, ma comunque sempre meglio degli uomini occidentali.

Quasi tutte le femministe, radicali, infatti, sono anche delle accese “anti-razziste” che si oppongono ad ogni minima limitazione dell’immigrazione islamica in quanto “razzista e xenofoba”. Il femminismo radicale si è trasformato gradualmente in egualitarismo, cioè nella lotta contro tutte le “discriminazioni” e nell’idea che tutti i gruppi di persone debbano disporre di una quota uguale di tutto, e che sia compito dello Stato assicurarla. Le femministe hanno contribuito enormemente alla diffusione della cultura del vittimismo in Occidente, che permette di ottenere i vantaggi politici sulla base dello status di appartenenza nella gerarchia delle vittime. Inoltre hanno chiesto, e in larga misura ottenuto, la riscrittura dei libri di storia che facesse giustizia dei “pregiudizi” maschilisti ed eurocentrici. Queste loro idee fanno oggi parte dei programmi scolastici e sono praticamente egemoni sui media. In breve, le femministe radicali hanno rappresentato l’avanguardia della “correttezza politica” in tutto l’Occidente.

Quando i musulmani arrivano in Occidente portandosi dietro la loro mentalità vittimista si trovano il lavoro già preparato da altri. Colgono quindi su un piatto d’argento l’opportunità di sfruttare una tradizione vittimista già stabilita, che gli permette di ottenere interventi statali a proprio favore, quote preferenziali, la riscrittura della storia in senso filo-islamico, e campagne politiche contro “l’islamofobia” e “l’incitamento all’odio”. Le femministe occidentali hanno dunque spianato la strada alle forze che annienteranno il femminismo occidentale, e di questo passo finiranno a letto, letteralmente, con il nemico.

Dal femminismo alla sharia

La graduale trasformazione dell’utopia femminista nel suo opposto, la legge coranica, è ormai evidente nei paesi scandinavi, dove l’applicazione dell’ideologia femminista e multiculturalista ha raggiunto le punte più avanzate. Negli ultimi anni, infatti, si è verificato un enorme aumento degli stupri e delle violenze sulle donne, per opera nella quasi totalità dei casi di giovani immigrati islamici. In Svezia il numero degli stupri è quadruplicato in una generazione, parallelamente all’afflusso di una immigrazione islamica senza controllo che ha già preso possesso di intere città, come Malmoe. Pur rappresentando non più del 5 % della popolazione, in Norvegia e in Danimarca due terzi di tutti gli uomini arrestati per stupro sono “di origine etnica non-occidentale”, un eufemismo usato per designare gli appartenenti alla religione musulmana.

Nel 2001 Unni Wikan, professoressa di antropologia sociale all’università di Oslo, ha dato la precedenza al multiculturalismo sul femminismo, spiegando in un’intervista al quotidiano Dagbladet che “le donne norvegesi hanno la loro parte di responsabilità in questi stupri” perché, essendo ormai la Norvegia una società multiculturale, le donne norvegesi devono adattarsi ai costumi degli immigrati, abbigliandosi e comportandosi in maniera giudicata non provocatoria dalla loro cultura.

Per i multiculturalisti, quindi, i norvegesi sono solo una delle tante etnie che popolano il paese dei fiordi (forse neanche la più importante), e sulle decisioni che riguardano la Norvegia non hanno più voce in capitolo dei somali o dei curdi giunti la settimana scorsa.

La risposta degli uomini scandinavi a queste continue aggressioni è stata quasi inesistente. Viene da chiedersi dove siano finiti i vichinghi di un tempo, che certo non si sarebbero voltati dall’altra parte se degli ospiti stranieri avessero violentato le loro donne. Probabilmente la mancata protezione delle donne da parte degli uomini scandinavi è dovuta al fatto che queste notizie vengono deliberatamente censurate o minimizzate dalle autorità e dai media, in modo che il pubblico non si renda conto delle eclatanti dimensioni del fenomeno.

La ragione principale, tuttavia, ha a che fare con l’influenza delle idee fortemente antimaschili che le femministe scandinave hanno diffuso negli ultimi decenni. L’istinto protettivo maschile non si manifesta perché le donne nordiche hanno lavorato senza sosta per sradicarlo, insieme a tutto ciò che fa parte della mascolinità tradizionale. In questo modo il femminismo ha indebolito mortalmente la Scandinavia, e probabilmente l’intera civiltà occidentale.

Dal punto di vista femminista questa situazione ha una sua logica: se tutta l’oppressione del mondo proviene dai maschi occidentali, il regno di pace e di eguaglianza sognato dalle femministe potrà essere raggiunto solo quando gli uomini bianchi verranno messi in condizione d’impotenza. La soppressione e la ridicolizzazione degli istinti maschili, tuttavia, non sta conducendo al paradiso femminista, ma all’inferno islamista. Una società in cui gli uomini sono stati “femminilizzati”, infatti, è destinata a cadere preda delle più aggressive civiltà tradizionali. Invece di “avere tutto”, le femministe rischiano di perdere tutto, e la crescente violenza degli immigrati contro le donne occidentali è un sintomo del crollo dell’utopia femminista. Cosa faranno le femministe quando si troveranno di fronte bande di giovani musulmani armati e violenti come quelli che spadroneggiano in Palestina, in Afghanistan e in tutto il mondo musulmano? Gli diranno che “il corpo è mio e lo gestisco io” o gli leggeranno l’ultimo libro di Catharine McKinnon?

La vita, la libertà e la proprietà possono essere protette solo con la forza o con una credibile minaccia di applicazione della forza, altrimenti sono lettera morta. Per questa ragione la responsabilità principale della difesa dei diritti individuali, anche delle donne, spetterà sempre in larga misura agli uomini. Raramente le teorie femministe tengono conto di questo fatto sociologico fondamentale. Le doti e le capacità delle donne sono indispensabili, ma nessuna civiltà vitale può fare a meno della forza e dell’energia maschile.

Nancy PelosiCome si spiega allora l’ammirazione delle donne progressiste occidentali per l’islam, quando non esiste un solo paese musulmano in cui le donne godano di diritti lontanamente paragonabili a quelli dell’uomo? Le attiviste occidentali che a casa propria attaccano duramente “l’arretratezza” e “la mentalità patriarcale” della Chiesa cattolica sono le stesse che si sottomettono con più voluttà alla sharia quando si recano nei paesi musulmani. Di recente la giornalista Lilli Gruber, la cantante Gianna Nannini e la speaker del Congresso americano Nancy Pelosi, che in Occidente fanno quotidianamente professione di femminismo, progressismo e trasgressione, hanno ostentato con orgoglio le loro foto con il chador scattate durante i viaggi in Medio Oriente.

Quando si comportano così, ha ironizzato qualche commentatore “maschilista”, le femministe tradiscono i propri desideri più nascosti. Lo scrittore danese Lars Hedegaard ha scritto, in un articolo intitolato “Il sogno della sottomissione”, che “quando le donne occidentali spalancano le porte alla sharia, presumibilmente lo fanno perché vogliono la sharia”. La scrittrice inglese Fay Weldon ha rincarato la dose affermando che “molte di queste donne trovano sessualmente attraente la sottomissione" e poco seducenti e noiosi gli uomini femminilizzati dell’Europa Occidentale, rispetto ai virili sceicchi del deserto.

Ma nello stesso modo si comportano probabilmente anche gli uomini occidentali quando devono scegliere una compagna di vita. È stato notato che nei paesi scandinavi sono in forte aumento gli uomini che preferiscono una moglie straniera proveniente da culture più tradizionali dell’estremo oriente o dell’America Latina. Il femminismo radicale ha portato separazione, sospetto e ostilità tra i sessi, non cooperazione. E non ha sradicato la naturale attrazione per le donne con caratteri femminili e per gli uomini con caratteri mascolini.

Ai musulmani spesso piace far notare che in Occidente si convertono all’Islamismo più donne che uomini. In un servizio giornalistico sulle donne svedesi convertite all’islam, risulta che l’attrazione per la famiglia islamica sia una delle motivazioni principali. Queste donne nordiche convertite trovano appagamento nel ruolo ben definito di cura della casa e dei figli che l’islam assegna loro. Hanno scoperto un senso da dare alla propria vita che non trovavano nella cultura secolare o nell’insipido e succube Cristianesimo modernista.

In psichiatria è stato notato che le donne tendono più frequentemente a rivolgere la propria nevrosi su se stesse, infliggendosi delle ferite o tenendo dei comportamenti autodistruttivi. Gli uomini invece sono più portati a dirigere la propria aggressività verso l’esterno. È inoltre risaputo che un certo numero di donne maltrattate dal marito tendono a giustificarne i comportamenti aggressivi e ad incolpare se stesse. La sensazione è che l’Occidente nel suo insieme, dopo decenni di propaganda antimaschile, abbia adottato inconsciamente alcuni di questi tratti negativi della psiche femminile. L’Occidente femminilizzato viene quotidianamente minacciato, insultato e aggredito con prepotenza dal mondo musulmano, ma reagisce – come la moglie abusata  incolpando se stesso, come se fosse in qualche modo affascinato dai suoi aguzzini.

Come ha scritto Alexandre Del Valle nel suo recentissimo libro Il totalitarismo islamista, questo masochismo espiatorio degli occidentali, frutto della tendenza a dubitare della propria civiltà e a flagellarsi di continuo, costituisce una irresistibile esortazione alla liberazione delle pulsioni più sadiche del fondamentalismo islamico.

L’eterogenesi dei fini

La femminista americana Ellen Willis scriveva nel 1981 su The Nation: “Il femminismo non riguarda solo una questione o un gruppo di questioni, ma è l’avanguardia di una rivoluzione dei valori culturali e morali. L’obiettivo di ogni riforma femminista, dalla legalizzazione dell’aborto alla promozione degli asili-nido pubblici, è quello di demolire i valori della famiglia tradizionale”. L’icona del femminismo Simone de Beauvoir affermò che “nessuna donna dovrebbe essere autorizzata a stare a casa per allevare i bambini, perché lasciandogli questa libertà troppe donne farebbero la scelta sbagliata”. Oggi ci accorgiamo che i desideri delle femministe degli anni Sessanta e Settanta, come la Willis e la de Beauvoir, si sono avverati oltre le più rosee previsioni: in Occidente i divorzi hanno avuto una crescita esplosiva mentre il numero dei matrimoni e delle nascite è crollato, determinando un vuoto culturale e demografico che ci ha resi vulnerabili all’irruzione dell’islam.

Il femminismo radicale ha inferto un colpo durissimo alla struttura famigliare del mondo occidentale, ma sarà impossibile risollevare i tassi di natalità se le donne non tornano ad essere apprezzate per il loro ruolo di madri e se il matrimonio non viene rivalutato. Non esistono altre istituzioni diverse dalla stabile famiglia tradizionale per crescere bambini culturalmente, emotivamente e psicologicamente sani e felici. Il matrimonio non è “una cospirazione per opprimere le donne”, ma la ragione per cui noi siamo qui.

In definitiva, il femminismo radicale ha rappresentato una delle più importanti cause dell’attuale indebolimento della civiltà occidentale, sia dal punto culturale che dal punto di vista demografico. Le femministe radicali, portatrici spesso di una visione del mondo marxista, hanno dato un contributo fondamentale all’affermazione della soffocante “correttezza politica” che impedisce ogni reazione dell’Occidente; inoltre, debilitando la struttura famigliare dell’Occidente hanno contribuito a rendere la nostra civiltà incapace di reggere l’assalto di società prolifiche e patriarcali come quella islamica.

Il destino di una società dominata dall’ideologia femminista, dove gli uomini sono troppo demoralizzati, indeboliti e inebetiti per difenderla, è quello di essere schiacciata e sottomessa dagli uomini provenienti da altre culture più aggressive e mascoline. È questo che sta accadendo all’Europa occidentale. L’ironia della sorte è che quando in Occidente le donne lanciarono la seconda ondata del femminismo negli anni sessanta e settanta godevano già di una situazione in via di miglioramento e non erano particolarmente oppresse, almeno rispetto ad altre parti del mondo. Alla fine del ciclo, quando gli effetti a lungo termine del femminismo radicale si saranno compiuti, le donne si troveranno realmente schiavizzate sotto l’implacabile tallone dell’islam. Sarà l’ennesima eterogenesi dei fini che, da sempre, scombussola i disegni e le vicende della storia umana.


Pagina tratta da www.libreriadelponte.com

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